Nonostante i fatti posti a fondamento della domanda di protezione internazionale risalissero al 2008 – 2009, il Tribunale adito ha infatti ritenuto che nel caso di specie operasse l’eccezione di cui all’art. 1C, par. 5, della Convenzione di Ginevra, recepita dal legislatore italiano all’art. 9, c.2 bis, D.Lgs. n. 251/2007, secondo cui, nell’ipotesi in cui i presupposti dello status non siano più attuali, il rifugiato può comunque rifiutare la protezione del Paese di cui ha la cittadinanza qualora sussistano motivi cogenti derivanti dalle persecuzioni ivi subite in passato. Come ricordato dal Tribunale, infatti, “l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) – le cui linee guida non costituiscono fonti normative ma autorevoli orientamenti interpretativi del diritto convenzionale – ha persuasivamente sottolineato che le compelling reasons sono espressione di un principio generale secondo cui l’individuo che in patria ha sofferto in prima persona gravi forme di persecuzione o ha visto infliggerle alla propria famiglia, non dovrebbe essere tenuto a farvi ritorno, a prescindere da un eventuale mutamento delle condizioni in cui i fatti si sono verificati. Un intervenuto mutamento delle condizioni sociali, infatti, potrebbe nel singolo caso – che va pertanto congruamente indagato – non aver cancellato le sofferenze patite dal rifugiato che, in caso di rimpatrio, potrebbe essere costretto a rievocare gli eventi passati e soffrirne nuovamente. Secondo autorevole giurisprudenza internazionale, oltretutto, nel valutare il sussistere di tali cogenti ragioni di non esclusione non dev’essere esclusivamente considerata la gravità della persecuzione subita o il tempo trascorso dal fatto ma dev’essere indagata la situazione individuale del ricorrente, avendo riguardo a fattori come background culturale, precedenti esperienze sociali e, soprattutto, l’età al momento del fatto”. (Tribunale di Milano, col decreto n. 10571 del 19.12.2023)