La Corte costituzionale, con sentenza n. 128, depositata il 16 luglio 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Questo nel caso in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro.
La decisione interviene dopo altre tre pronunce che, a partire dal 2018, hanno sancito l’illegittimità di diverse disposizioni contenute nel cosiddetto Jobs Act per violazione di precetti costituzionali:
La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dalla Sezione lavoro del Tribunale ordinario di Ravenna.
Riguarda un lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato nel 2018 e licenziato per giustificato motivo oggettivo nel 2021.
Il lavoratore ha sostenuto che il datore di lavoro avesse violato l’obbligo di repechage, cioé non avesse cercato, come avrebbe dovuto, di ricollocare il lavoratore in una altra posizione utile in azienda.
La violazione di questo obbligo, che grava sul datore di lavoro, è emersa chiaramente nel corso della causa.
Il giudice avrebbe dunque dovuto applicare la norma prevista dall’articolo 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015 che però non prevede la reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro nel caso di accertata insussistenza del giuistificato motivo oggettivo posto a base del licenziamento.
Il giudice ha quindi dubitato della legittimità costituzionale della norma perché non mette tutti i lavoratori sullo stesso piano e non riconosce loro la stessa tutela a fronte dell’insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento.
La legge n. 604/1966 impone che il licenziamento sia sempre sorretto da
Si parla infatti di «lnatura causale del licenziamento».
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è determinato fondamentalmente da motivi economici e organizzativi dell’azienda, o, per usare le parole della legge, «da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ha quindi una connotazione economica e la soppressione del posto di lavoro è resa necessaria da una ragione produttiva e organizzativa.
Nel 2012 il legislatore era intervenuto e aveva introdotto diversi regimi di tutela del lavoratore nel caso fosse dimostrata l’illegittimità del licenziamento.
Questi meccanismi di tutela sono graduati in base alla gravità della condotta del datore di lavoro.
Fino a quel momento, per ogni licenziamento dimostratosi illegittimo intimato da imprese di medio-grandi dimensioni, era previsto che il lavoratore fosse reintegrato nel posto di lavoro.
Da allora in poi la reintegrazione è stata limitata ai casi di:
Per tutte le altre ipotesi di licenziamento illegittimo è previsto che il lavoratore sia tutelato dal pagamento di un indennizzo economico.
Il Jobs Act, che ha come destinatari tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ha ulteriormente ristretto l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria.
Ora quella tutela è riservata solamente a:
Il caso all’esame delle Corte Costituzionale riguarda invece una eventualità diversa; infatti il licenziamento è stato intimato per giustificato motivo oggettivo in conseguenza della cui illegittimità il lavoratore avrebbe potuto chiedere solo la tutela indennitaria (articolo 3 , comma 1).
La recente sentenza della Corte Costituzionale di cui stiamo parlando riscontra invece un contrasto tra l’articolo 3, comma 2 decreto legislativo n. 23/2015 (Jobs Act) e gli articoli 3, 4 e 35 della Costituzione.
Il principio di uguaglianza e ragionevolezza imposto dall’art.3 della Costituzione impedisce che la discrezionalità del legislatore giunga a rfimettere al datore di lavoro la scelta del tipo di tutela applicabile (reintegratoria attenuata o indennitaria) attraverso la semplice qualificazione dell’atto come licenziamento disciplinare o per giustificato motivo oggettivo.
Se si ammettesse -come previsto ora dal Jobs Act- che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo desse sempre luogo al solo indennizzo per il lavoratore, anche se ne fosse stata accertata l’illegittimità per insussistenza del fatto che ne costituisce il fondamento, si aprirebbe «una falla nella disciplina complessiva di contrasto dei licenziamenti illegittimi, la quale deve avere, nel suo complesso, un sufficiente grado di dissuasività delle ipotesi più gravi di licenziamento».
«Nella misura in cui è possibile per il datore di lavoro estromettere il prestatore dal posto di lavoro solo allegando un fatto materiale insussistente e qualificandolo come ragione d’impresa – prosegue infatti la Corte – la prevista tutela reintegratoria nei casi più gravi di licenziamento (quello nullo, quello discriminatorio, quello disciplinare fondato su un fatto materiale insussistente) risulta fortemente indebolita in quanto aggirabile ad libitum dal datore di lavoro, seppur a fronte del “costo” della compensazione indennitaria».
Il licenziamento fondato su un fatto insussistente configura un’ipotesi di licenziamento senza causa, il quale, afferma la Corte, si pone al limite del licenziamento discriminatorio che, ove accertato, dà luogo alla tutela reintegratoria piena ai sensi dell’articolo 2.
Tuttavia, l’astratta configurabilità di una fattispecie più grave, come quella discriminatoria, “non giustifica che, in mancanza di prova della ragione discriminatoria, la tutela degradi a quella unicamente indennitaria per il sol fatto che il datore di lavoro qualifichi il fatto materiale insussistente come (apparente) ragione d’impresa e quindi come (asserito) motivo economico di licenziamento.”
Nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per violazione dell’obbligo di repechage, la tutela resta invece quella meramente indennitaria posto che il licenziamento dovrebbe considerarsi comunque fondato su un fatto sussistente.
Questa sentenza della Corte Costituzionale sancisce quindi l’illegittimità del Jobs Act sotto un altro profilo, ulteriore rispetto a quelli già censurati con le precedenti decisioni, ribadendo la necessità di garantire un equilibrio tra le esigenze di flessibilità del mercato del lavoro e la tutela della dignità e dei diritti fondamentali dei lavoratori.