Migranti e paesi sicuri, il Tribunale di Roma ha applicato le norme europee e italiane

Il 6 novembre 2024, la Sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale di Roma ha deciso di non convalidare il trattenimento di alcune persone provenienti da Bangladesh e Egitto che erano state intercettate dalle autorità italiane durante operazioni di soccorso in mare e condotte nell’apposito centro costruito in Albania.

Il trasferimento ha seguito il protocollo siglato dal nostro governo e da quello albanese, che configura l’Albania come un Paese di appoggio.  Il governo di Tirana ha messo infatti a disposizione aree ad hoc, equiparate a zone di frontiera o di transito nelle quali i migranti possono essere trattenuti per il tempo necessario all’esame della loro domanda di asilo e a completare l’eventuale procedura di rimpatrio verso il Paese di origine.

L’intervento del Tribunale di Roma riguarda la procedura applicabile

Il contrasto nato tra i giudici del Tribunale di Roma e il governo italiano non riguarda i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale da parte del nostro Paese, ma unicamente il tipo di procedura applicabile e, in particolare, l’applicabilità della cosiddetta procedura accelerata di frontiera, alla quale è possibile sottoporre le domande di protezione presentate da migranti provenienti dai Paesi di origine considerati sicuri.

Il Tribunale di Roma, a sostegno del provvedimento di non convalida dei trattenimenti, ha fatto applicazione di due direttive comunitarie:

I paesi sicuri nell’elenco approvato dal Governo

 

L’elenco dei Paesi Sicuri viene continuamente aggiornato dal nostro Paese.

A seguito dell’approvazione del decreto legge 158/24, tale elenco include: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.

Un Paese può essere considerato sicuro, ai sensi della direttiva dell’Unione europea,  sostanzialmente quando il suo cittadino non rischia di essere perseguitato o di subire violazioni gravi di diritti umani fondamentali.

Nell’articolo qui allegato, l’avvocata Luisa Belli, dello studio BGP Avvocati ha esaminato la questione contestualizzando la vicenda all’interno del panorama normativo nazionale e comunitario.

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Il “tempo tuta”, la nozione di orario di lavoro e il diritto alla retribuzione

Il «tempo tuta», impiegato dal lavoratore prima e dopo lo svolgimento della sua mansione e funzionale al suo svolgiemento è da considerare come orario di lavoro

di avv. Luisa Belli

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Il concetto di orario di lavoro

L’art. 2 del D.Lgs n. 66/2003 definisce orario di lavoro: «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle sue funzioni».

Il decreto recepisce la normativa UE (Direttive Comunitarie 93/104/CE e 2000/34/CE), che stabilisce:

  • i requisiti dell’organizzazione dell’orario di lavoro;
  • la disciplina delle pause e del riposo;
  • la durata della settimana lavorativa.

Il concetto di orario di lavoro si concretizza nel fatto che il lavoratore mette le proprie energie a disposizione del datore di lavoro per quel lasso di tempo.

La soggezione al potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro rappresenta l’elemento qualificante della natura subordinata del rapporto di lavoro.

Nell’orario di lavoro rientrano quindi tutte le operazioni complementari e strumentali all’attività lavorativa in senso stretto, svolte sotto le direttive e il controllo del datore di lavoro.

 

La giurisprudenza comunitaria e nazionale in materia

La giurisprudenza comunitaria che si è occupata della nozione di orario di lavoro ha chiarito che può essere considerato periodo di riposo solo quello durante il quale i lavoratori dispongono della “possibilità (…) di gestire il loro tempo in modo libero”.

Sul solco di tale orientamento, la Cassazione ha costantemente affermato che le operazioni anteriori e posteriori alla prestazione lavorativa devono essere retribuite come orario di lavoro se sono necessarie e obbligatorie al suo svolgimento.

Secondo gli insegnamenti della Corte rientrano quindi nell’orario di lavoro retribuito, ad esempio:

il tempo di percorrenza impiegato dai lavoratori per compiere il tragitto dall’ingresso aziendale alla postazione di lavoro e viceversa;
il tempo necessario per effettuare le operazioni di log in e log out sui personal computer;
tempo di vestizione e svestizione dagli specifici indumenti da lavoro, il cosiddetto tempo tuta.

Il principio applicato dalla Corte di Cassazione e condiviso anche dai giudici di merito, si basa sulla considerazione che queste attività sono soggette al potere direttivo esercitato dal datore di lavoro nell’ambito della organizzazione delle prestazioni dei dipendenti e funzionali al loro corretto svolgimento.

Il «tempo tuta» va retribuito

Il lavoratore a cui viene richiesto di svolgere determinate mansioni indossando una divisa o una tuta o altro indumento specifico, o quello che deve utilizzare una certa postazione telematica che preveda specifiche operazioni di accesso, così come ogni altra attività accessoria e necessaria alla prestazione lavorativa in senso stretto, va retribuito, dovendosi considerare tali operazioni come tempo effettivo di lavoro.

Il diritto alla mensa dei turnisti nel comparto sanità pubblica

La Corte di Cassazione interviene nuovamente sul tema di diritto alla mensa del personale del comparto sanità.
La Suprema Corte, con l’Ordinanza n.21440 del 31.7.2024 ha confermato  il proprio orientamento.
La Corte ha riaffermato principi più volte espressi e interpretato l’istituto della pausa del personale turnista sanitario in relazione: 

  • alla natura del diritto; 
  • ai presupposti per l’applicazione; 
  • alle modalità di fruizione; 

e ha inoltre fornito spunto per una sintetica disciplina. 

  

La disciplina contrattuale collettiva del diritto alla mensa/pausa pranzo 

Il diritto alla mensa è regolato nel comparto della sanità pubblica dall’art.29 del Contratto collettivo nazionale 20.9.2001 successivamente modificato, nei commi 1 e 4, dall’art. 4 del CCNL del 31 luglio 2009. 

La norma prevede in sintesi che: 

  • hanno diritto alla mensa tutti i dipendenti effettivamente in servizio ed in relazione ad una “particolare articolazione dell’orario di lavoro” (comma 2)- 
  • il pasto va consumato fuori l’orario di lavoro e il tempo impiegato è rilevato con i normali mezzi di controllo dell’orario e non deve essere superiore a trenta minuti (comma 3). 

  

L’interpretazione della Corte di Cassazione 

La Corte di Cassazione ha interpretato la disposizione e chiarito presupposto, modalità di fruizione e finalità del diritto alla mensa.
Lo ha fatto anche in passato con numerose pronunce di orientamento conforme. 

Per tutte si possono citare le sentenze della Cassazione Civile n.5547/2021, n.15629/2021, n.32133/2022, n.23255/2023 e n.25622/2023). 

Secondo la Corte, il diritto alla mensa è collegato alla fruizione di un intervallo non lavorato e quindi rimanda al diritto alla pausa previsto dall’art.8 D.Lgs 66/2003.
L’art.8 D.Lgs 66/2003 prevede una obbligatoria sosta lavorativa finalizzata a consentire al lavoratore il recupero delle energie psicofisiche e la eventuale consumazione del pasto qualora l’orario di lavoro giornaliero eccede il limite di sei ore.

  

La finalità del diritto di mensa 

La previsione del diritto di godere di una pausa pranzo, nelle intenzioni del legislatore è quella di migliorare, con una misura dal carattere assistenziale, le condizioni di vita e lavoro del lavoratore che affronti turni superiori alle sei ore.
La pausa si inserisce nell’ambito dell’organizzazione dell’ambiente di lavoro, per conciliare le esigenze del servizio con quelle del lavoratore.
Va infatti garantita tanto l’efficienza del servizio tanto il benessere fisico necessario perché il dipendente prosegua la propria attività. 

  

Il presupposto del diritto alla mensa  

Il presupposto per il diritto alla mensa è infatti l’orario di lavoro giornaliero che consente la pausa se è superiore alle sei ore.
La previsione del contratto collettivo di lavoro richiede che il pasto vada consumato in un intervallo al di fuori dell’orario di lavoro. 
Questa norma riporta all’art.8 D.Lgs 66/2003 che prevede che il  lavoratore con orario di lavoro giornaliero superiore alle sei ore, benefici di “un intervallo per pausa“.
Lo scopo dell’intervallo è il recupero delle energie psicofisiche e solo eventualmente la consumazione di un pasto. 

  

La durata della pausa pranzo 

La Cassazione nella sentenza 5547/2021 chiarisce che: “il pasto va consumato al di fuori dell’orario di lavoro ed il tempo a tal fine impiegato è rilevato con i normali strumenti di controllo dell’orario e non deve essere superiore a 30 minuti”.  

Il diritto alla mensa sorge pertanto ogni volta che il dipendente deve osservare un’orario di lavoro superiore alle sei ore. Non rileva il fatto che l’attività lavorativa sia prestata nelle fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto. 

  

Le modalità di godimento della pausa 

Secondo la Cassazione, la fruizione del pasto rientra nell’ambito di un intervallo non lavorato durante la quale il dipendente non è assoggettato ad alcuno obbligo contrattuale e non è quindi a disposizione del datore di lavoro.
Per la consumazione del pasto, i turnisti fruiscono della mensa o di una pausa con modalità sostitutiva.
La pausa si deve collocare fuori dall’orario di lavoro, come intervallo tra due periodi di attività lavorativa e non deve essere superiore a 30 minuti. 

Si è espressa in modo conforme anche ARAN (parere CSAN104a e CSAN52), secondo la quale: “la norma contrattuale non pone limitazione alcuna al godimento della pausa mensa/pasto in relazione al turno assegnato che dovrà però essere esercitata nell’intervallo tra due periodi di attività lavorativa”. 

  

di Paolo Perucco

Se il concorso pubblico del comparto sanità prevede la «piena idoneità» alla mansione, può essere illegittimo o discriminatorio

 La piena idoneità alla mansione nel bando di concorso pubblico

Le Aziende del comparto della Sanità pubblicano bandi di concorso per personale di diverso livello che, sempre più di frequente, richiedono, quale condizione all’assunzione, il requisito della piena idoneità alla mansione ossia senza  limitazioni o prescrizioni.

Per effetto di questo requisito, rifiutano l’assunzione del candidato che, pur risultato vincitore o utilmente collocato in graduatoria, sia solo parzialmente idoneo alla mansione cioè possa svolgerla ma con limitazioni o prescrizioni.

Questo accade anche quando il profilo professionale è indicato nel bando in modo generico, come per esempio:  Operatore sociosanitario, Infermieree via dicendo.

 

La disciplina legale della idoneità alla mansione: la verifica della idoneità

La normativa sull’argomento è prevista dal Decreto del Presidente della Repubblica n.220/2001 e dal  Decreto Legislativo n. 81/2008

I requisiti per la partecipazione ai concorsi del personale non dirigenziale del Servizio sanitario nazionale sono dettati, in particolare dall’art. 2 del DPR n. 220/2001 che contempla, tra gli altri, il requisito della idoneità fisica all’impiego e prevede che l’accertamento dell’idoneità sia effettuato da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, prima della immissione in servizio.

La verifica dell’idoneità fisica all’impiego del dipendente è regolata dagli articoli 41 e 42 del d.lgs 81/2008,  che sono applicati anche al settore pubblico.

Il medico competente può esprimere, in relazione alla mansione specifica, un giudizio di:

  • idoneità;
  • idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
  • inidoneità temporanea;
  • inidoneità permanente.

L’articolo 42 del Decreto citato impone al datore di lavoro di: «attuare le misure indicate dal medico competente» e, nel caso che queste misure prevedano una inidoneità alla mansione specifica, di  adibire il lavoratore a mansioni diverse ed equivalenti se possibili o, se non possibile, di destinarlo a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni che gli erano state inizialmente attribuite.

Il legislatore ha quindi compiuto un equo e bilanciato contemperamento tra il diritto alla salute e al lavoro e il diritto al libero esercizio dell’impresa.

La tutela del lavoratore prevede che sia a carico del datore di lavoro, in caso di inidoneità alla mansione specifica di provenienza, l’obbligo di ricercare altre soluzioni idonee a rispettarne i diritti.

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza 1.7.2016, n. 13511

«[…] tale norma, riconoscendo nella fattispecie regolata il permanente conflitto tra il diritto alla salute e al lavoro, da una parte, e il diritto al libero esercizio dell’impresa, dall’altra, pone la necessità di un loro equo e bilanciato contemperamento, attraverso l’adibizione del lavoratore anche ed eventualmente a mansioni inferiori ed il compimento di quei processi di adattamento dell’assetto organizzativo che, nel quadro essenziale delle scelte di fondo operate dall’imprenditore, si rivelino con essi compatibili. […] in ciò esprimendosi anche l’osservanza dei canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto, le soluzioni che, all’interno del fondamentale piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti e idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore…»

 

Legittimità del concorso che prevede la piena idoneità

Il quadro normativo sopra descritto rende discutibile la previsione nel bando di concorso del requisito della piena idoneità alla mansione come condizione di assunzione e il conseguente rifiuto del datore di lavoro a immettere in servizioil lavoratore risultato idoneo a quella mansione solo parzialmente, con limitazioni o prescrizioni.

L’idoneità del lavoratore a ricoprire la mansione non può infatti essere esclusa dal solo giudizio espresso di idoneità parziale alla mansione con limitazioni.

Soprattutto quando la mansione bandita è riferita a profilo professionale genericamente descritto (come nell’esempio sopra: Operatore Sociosanitario, Infermiere), senza cioè alcun riferimento al reparto di destinazione, a particolari contenuti o modalità di erogazione della prestazione, a specifiche articolazioni di orario che possano risultare, in ipotesi, incompatibili con le disposte limitazioni o prescrizioni.

La legge (il citato art. 42 del d.lgs 81/2008), impone all’Amministrazione datrice di lavoro di attuare le misure indicate dal medico competente.

Anche se le limitazioni individuate dal medico competente fossero tali da impedire al lavoratore di svolgere alcune delle attività proprie della mansione oggetto di concorso, l’Amministrazione datrice di lavoro è tenuta a ricercare, ove possibile, le soluzioni idonee ad assicurare l’impiego del lavoratore come previsto dalla norma.

L’Amministrazione quindi non ha il potere di mutare il giudizio di idonietà con limitazioni in un giudizio di inidoneità.

Prevedere invece, quale condizione di assunzione, il requisito della idoneità fisica senza limitazioni e prescrizioni avrebbe quale conseguenza quella di escludere questo obbligo datoriale di ricercare soluzioni per realizzare il diritto al lavoro del candidato, imposto invece a tutti i datori di lavoro dalla legge.

Sotto altro profilo, il requisito, previsto in bando, della piena idoneità fisica all’impiego quale condizione di assunzione, va valutato anche in relazione al divieto di praticare una discriminazione diretta o indiretta a causa di handicap, divieto previsto dalDecreto legislativo n. 216/2003.

L’art.2 del Decreto parla infatti di discriminazione indiretta quando una disposizione, un atto apparentemente neutri potrebbero mettere le persone portatrici di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Per rendere effettiva la parità di trattamento delle persone disabili in ambito lavorativo, quella norma impone al datore di lavoro di adottare «accomodamenti ragionevoli per garantire alle persone con disabilita’ la piena eguaglianza con gli altri lavoratori», cioè di compiere interventi idonei a eliminare la situazione di svantaggio dovuta alla condizione di disabilità del proprio dipendente.

Se quindi il bando di concorso richiede il requisito della piena idoneità per un profilo che può essere occupato da un candidato portatore di handicap o disabilità anche per effetto di opportuni accorgimenti o accomodamenti, quel requisito potrebbe essere considerato discriminatorio e il conseguente rifiuto all’assunzione espresso dall’amministrazione sulla base di quella sola condizione di bando, sarebbe illegittimo.

 

Paolo Perucco

 

Condizione di disabilità: divieto di discriminazione, accomodamenti ragionevoli e novità introdotte dal D. Lgs n.62/2024

La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006, impone agli Stati parti, tra i quali l’Italia:

  • di vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità;
  • di garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione, qualunque ne sia il fondamento;
  • di adottare tutti i provvedimenti appropriati per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli.

Le forme della discriminazione nel decreto del 2003

Nell’ordinamento giuridico italiano il principio di parità di trattamento delle persone con disabilità era già previsto, con riferimento all’occupazione e alle condizioni di lavoro, dal d.lgs n. 216/2003, che ha dato attuazione alla direttiva comunitaria 2000/78/CE e vietato qualsiasi discriminazione diretta o indiretta nei confronti di persone disabili. Il decreto precisa le diverse forme di discriminazione:

  1. discriminazione diretta quando per le condizioni di disabilità (o per religione, per convinzioni personali, per età, per nazionalità o per orientamento sessuale), una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga;
  2. discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone in condizioni di disabilità (e le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, nonché le persone di una particolare età o nazionalità o orientamento sessuale) in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

La parità di trattamento delle persone disabili

Lo stesso decreto per rendere effettiva la parità di trattamento delle persone disabili in ambito lavorativo, vieta al datore di lavoro di praticare qualsivoglia discriminazione.
Gli impone in particolare di adottare: «accomodamenti ragionevoli per garantire alle persone con disabilita’ la piena eguaglianza con gli altri lavoratori».

La legge quindi chiede al datore di lavoro di compiere interventi idonei a eliminare la situazione di svantaggio dovuta alla condizione di disabilità del proprio dipendente.

Sul punto, la Corte di Cassazione, con l’importante sentenza n. 6497/2021, ha chiarito che per accomodamenti ragionevoli debbano intendersi adeguamenti quali la sistemazione di locali, l’adozione di attrezzature, ritmi di lavoro e ripartizioni di compiti adeguati alle esigenze del lavoratore affetto da disabilità. Spetta al datore di lavoro anche fornire mezzi di formazione o di inquadramento. Per usare le parole della Corte, egli deve adottare: «adeguamenti organizzativi che si caratterizzino per la loro appropriatezza, ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa».

La Corte ha quindi ritenuto illegittimo il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica di un lavoratore al quale il datore di lavoro non aveva fornito questi adeguamenti. Nel caso di specie, il il datore di lavoro non ha provato di aver svolto gli atti e le operazioni adatte a trovare l’accomodamento ragionevole richiesto dalla legge.

Il datore di lavoro, per la Cassazione non ha «compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto».

L’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli

La legge impone l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli al datore di lavoro, non solo per prevenire il licenziamento del dipendente disabile, ma anche per realizzare la parità di trattamento in tutti gli ambiti previsti dal d.lgs n.261/2003.

Il d.lgs n. 216/2003 persegue la condizione di parità con gli altri lavoratori in diversi ambiti, quali:

  • avanzamenti di carriera
  • salute e la sicurezza sul lavoro
  • ricollocamento
  • l’accesso all’occupazione a al lavoro.

La Suprema Corte nella stessa sentenza ha tuttavia chiarito che l’accomodamento deve essere ragionevole. La ragionevolezza sta nel trovare una soluzione organizzativa praticabile che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio tollerabilie e che possa essere considerato accettabile. La valutazione finale spetta al giudice che la valuterà caso per caso.

L’entrata in vigore del nuovo decreto 62/2024

Il 30 giugno 2024 è entrato in vigore il d.lgs n. 62/2024, che ha introdotto interessanti novità per assicurare alle persone disabili la rimozione degli ostacoli al pieno esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, delle libertà e dei diritti civili e sociali, in tutti i “contesti di vita, liberamente scelti”.
Il decreto dà attuazione ai principi e alle finalità dettati dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.

In particolare, l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli è stato esteso in qualunque contesto di vita, quindi non è più solo riferito all’occupazione e al lavoro. L’obbligo vale nei confronti della pubblica amministrazione, dei concessionari di pubblici servizi e anche dei soggetti privati, in ogni caso in cui: «l’applicazione delle disposizioni di legge non garantisca alle persone con disabilità il godimento e l’effettivo e tempestivo esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».

Al riguardo, il d.lgs n. 62/2024 ha introdotto la possibilità per la persona disabile di proporre istanza scritta ai soggetti indicati nella legge, quindi anche ai privati perché adottino un accomodamento ragionevole. Questa facoltà si estende all’esercente la responsabilità genitoriale in caso di minore o il tutore, ovvero l’amministratore di sostegno, se dotato dei poteri.

La persona con disabilità e gli altri soggetti richiedenti, che possono anche formulare una proposta concreta con riferimento all’accomodamento da adottare, partecipano al procedimento finalizzato all’individuazione dell’accomodamento ragionevole.

Nel caso di rifiuto da parte della pubblica amministrazione, del concessionario di pubblici servizi o del soggetto privato all’adozione dell’accomodamento ragionevole, la persona disabile e le associazioni legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 67 del 2006, possono chiedere all’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità di verificare se il rifiuto di accomodamento ragionevole rappresenti discriminazione.

Resta ferma in ogni caso la possibilità di agire in giudizio.

L’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità, istituita di recente con d.lgs 5 febbraio 2024 n. 20, sarà attiva solo a partire dal 1° gennaio 2025 e rappresenterà, nelle intenzioni del legislatore, il soggetto deputato a promuovere i diritti delle persone con disabilità in Italia e a ricevere segnalazioni sull’esistenza di fenomeni discriminatori nei loro confronti.


Contributo di Emanuele Pizzato

La Consulta: reintegra del lavoratore anche in caso di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Con la sentenza n. 128/2024 della Corte Costituzionale anche il lavoratore illegittimamente licenziato per giustificato motivo oggettivo può aver diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro

La Corte costituzionale, con sentenza n. 128, depositata il 16 luglio 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Questo nel caso in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro.

La decisione interviene dopo altre tre pronunce che, a partire dal 2018, hanno sancito l’illegittimità di diverse disposizioni contenute nel cosiddetto Jobs Act per violazione di precetti costituzionali:

  • la n. 194/2028 (articolo 3, comma 1);
  • la n. 150/2020 (all’articolo 4);
  • la n. 22/2024 (articolo 2, comma 1).

Il caso di licenziamento illegittimo

La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dalla Sezione lavoro del Tribunale ordinario di Ravenna.

Riguarda un lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato nel 2018 e licenziato per giustificato motivo oggettivo nel 2021.

Il lavoratore ha sostenuto che il datore di lavoro avesse violato l’obbligo di repechage, cioé non avesse cercato, come avrebbe dovuto, di ricollocare il lavoratore in una altra posizione utile in azienda.

La violazione di questo obbligo, che grava sul datore di lavoro, è emersa chiaramente nel corso della causa.

Il giudice avrebbe dunque dovuto applicare la norma prevista dall’articolo 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015 che però non prevede la reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro nel caso di accertata insussistenza del giuistificato motivo oggettivo posto a base del licenziamento.

Il giudice ha quindi dubitato della legittimità costituzionale della norma perché non mette tutti i lavoratori sullo stesso piano e non riconosce loro la stessa tutela a fronte dell’insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento.

Le norme sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo

La legge n. 604/1966 impone che il licenziamento sia sempre sorretto da

  • una giusta causa;
  • un giustificato motivo, soggettivo o oggettivo .

Si parla infatti di «lnatura causale del licenziamento».

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è determinato fondamentalmente da motivi economici e organizzativi dell’azienda, o, per usare le parole della legge, «da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ha quindi una connotazione economica e la soppressione del posto di lavoro è resa necessaria da una ragione produttiva e organizzativa.

Nel 2012 il legislatore era intervenuto e aveva introdotto diversi regimi di tutela del lavoratore nel caso fosse dimostrata l’illegittimità del licenziamento.

Questi meccanismi di tutela sono graduati in base alla gravità della condotta del datore di lavoro.

Fino a quel momento, per ogni licenziamento dimostratosi illegittimo intimato da imprese di medio-grandi dimensioni, era previsto che il lavoratore fosse reintegrato nel posto di lavoro.

Da allora in poi la reintegrazione è stata limitata ai casi di:

  • licenziamento nullo o discriminatorio (tutela reintegratoria forte);
  • licenziamento fondato su un fatto insussistente (tutela reintegratoria attenuata).

Per tutte le altre ipotesi di licenziamento illegittimo è previsto che il lavoratore sia tutelato dal pagamento di un indennizzo economico.

Il Jobs Act, che ha come destinatari tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ha ulteriormente ristretto l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria.

Ora quella tutela è riservata solamente a:

  • licenziamenti nulli, discriminatori o intimati in forma orale (articolo 2);
  • licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, qualora venga dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (articolo 3, comma 2).

Il caso all’esame delle Corte Costituzionale riguarda invece una eventualità diversa; infatti il licenziamento è stato intimato per giustificato motivo oggettivo in conseguenza della cui illegittimità  il lavoratore avrebbe potuto chiedere solo la tutela indennitaria (articolo 3 , comma 1).

La sentenza della Corte Costituzionale e il Jobs Act

La recente sentenza della Corte Costituzionale di cui stiamo parlando riscontra invece un contrasto tra l’articolo 3, comma 2 decreto legislativo n. 23/2015 (Jobs Act) e gli articoli 3, 4 e 35 della Costituzione.

Il principio di uguaglianza e ragionevolezza imposto dall’art.3 della Costituzione impedisce che la discrezionalità del legislatore giunga a rfimettere al datore di lavoro la scelta del tipo di tutela  applicabile (reintegratoria attenuata o indennitaria) attraverso la semplice qualificazione dell’atto come licenziamento disciplinare o per giustificato motivo oggettivo.

Se si ammettesse -come previsto ora dal Jobs Act-  che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo desse sempre luogo al solo indennizzo per il lavoratore, anche se ne fosse stata accertata l’illegittimità per insussistenza del fatto che ne costituisce il fondamento, si aprirebbe «una falla nella disciplina complessiva di contrasto dei licenziamenti illegittimi, la quale deve avere, nel suo complesso, un sufficiente grado di dissuasività delle ipotesi più gravi di licenziamento».

«Nella misura in cui è possibile per il datore di lavoro estromettere il prestatore dal posto di lavoro solo allegando un fatto materiale insussistente e qualificandolo come ragione d’impresa – prosegue infatti la Corte – la prevista tutela reintegratoria nei casi più gravi di licenziamento (quello nullo, quello discriminatorio, quello disciplinare fondato su un fatto materiale insussistente) risulta fortemente indebolita in quanto aggirabile ad libitum dal datore di lavoro, seppur a fronte del “costo” della compensazione indennitaria».

Il licenziamento fondato su un fatto insussistente configura un’ipotesi di licenziamento senza causa, il quale, afferma la Corte, si pone al limite del licenziamento discriminatorio che, ove accertato, dà luogo alla tutela reintegratoria piena ai sensi dell’articolo 2.

Tuttavia, l’astratta configurabilità di una fattispecie più grave, come quella discriminatoria, “non giustifica che, in mancanza di prova della ragione discriminatoria, la tutela degradi a quella unicamente indennitaria per il sol fatto che il datore di lavoro qualifichi il fatto materiale insussistente come (apparente) ragione d’impresa e quindi come (asserito) motivo economico di licenziamento.

Nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per violazione dell’obbligo di repechage, la tutela resta invece quella meramente indennitaria posto che il licenziamento dovrebbe considerarsi comunque fondato su un fatto sussistente.

Questa sentenza della Corte Costituzionale sancisce quindi l’illegittimità del Jobs Act sotto un altro profilo, ulteriore rispetto a quelli già censurati con le precedenti decisioni, ribadendo la necessità di garantire un equilibrio tra le esigenze di flessibilità del mercato del lavoro e la tutela della dignità e dei diritti fondamentali dei lavoratori.

Luisa Belli

La retribuzione feriale del personale ferroviario

La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla retribuzione feriale nel trasporto ferroviario: deve essere pari a quella percepita durante i periodi ordinari di lavoro.

La Corte di Cassazione nelle recentissime sentenze (n. 13932/2024, 14089/2024 e 13972/2024), pubblicate il 20 e 21 maggio, è tornata a pronunciarsi in merito alla questione della retribuzione feriale e, in particolare, alla necessaria equivalenza fra quest’ultima e la retribuzione percepita durante l’attività ordinaria di lavoro.

Dopo una serie di pronunce che erano già intervenute sul tema, nell’ambito del contenzioso promosso da dipendenti della compagnia ferroviaria Trenord, i giudici di legittimità hanno ora accolto anche le istanze avanzate da macchinisti e capotreno dipendenti di Trenitalia.

La Corte di Cassazione aveva già avuto occasione di esprimersi sulla nozione di retribuzione feriale nel corso di giudizi promossi dal personale navigante dello stretto di Messina e dal personale di volo di Alitalia CAI.

 

La retribuzione feriale nel rapporto di lavoro degli addetti ai trasporti

In Italia, il diritto alle ferie retribuite è disciplinato da:

  • articolo 36 della Costituzione
  • all’articolo 31 della Carta di Nizza
  • articolo 7 della Direttiva Europea 2003/88.

L’insieme di queste norme sancisce il diritto di ogni lavoratore a godere di ferie annuali retribuite per un periodo pari ad almeno quattro settimane all’anno.

La Corte di Cassazione, nel ribadire i principi espressi in materia dai giudici comunitari e già richiamati nelle proprie precedenti pronunce, ha concluso che anche le indennità variabili rivendicate dai lavoratori Trenitalia debbano essere incluse nel calcolo della loro retribuzione feriale nella misura pari alla media di quelle percepite nell’arco dell’annualità antecedente il riposo.

La Corte motiva la decisione riconoscendo il collegamento esistente tra le indennità richieste e l’esecuzione delle mansioni tipiche del personale ferroviario, oltre alla loro correlazione con lo status professionale e personale dei lavoratori coinvolti.

Nella sentenza n. 13932/2024, in particolare, i giudici hanno affermato che anche l’indennità di  scorta vetture eccedenti e le provvigioni per vendita di titoli di viaggio a bordo treno, corrisposte in via ordinaria al solo personale con qualifica di capotreno, rientrano tra gli emolumenti che devono essere considerati ai fini del computo della retribuzione feriale. Si tratta infatti, hanno precisato i giudici, di voci retributive corrisposte in via continuativa al personale mobile e correlate al disagio intrinseco della mansione.

 

Le decisioni della Corte di Cassazione

Tutte e tre le pronunce hanno definitivamente chiarito che ai fini della valutazione dell’effetto dissuasivo vietato dalla normativa comunitaria, non è possibile confrontare la differenza retributiva mensile con quella annuale: «dal momento che, per il lavoratore dipendente, la possibile induzione economica alla rinuncia al proprio diritto alle ferie deriva dall’incidenza sulla retribuzione che ogni mese, e quindi anche in quello di ferie, egli può impegnare per garantire a sé o alla sua famiglia le ordinarie condizioni economiche di vita».

Le decisioni della Corte di Cassazione avranno certamente un impatto significativo, oltre che sul trasporto ferroviario, su tutti quei settori nei quali la retribuzione dei lavoratori è composta in misura rilevante da elementi variabili, laddove questi vengano esclusi dal calcolo della retribuzione feriale. Se non vi sarà un adeguamento delle politiche retributive e un rinnovato impegno a rispettare i diritti dei lavoratori, sarà inevitabile l’aprirsi di nuovi filoni di contenzioso sul tema.

 

L’impegno di BGP Avvocati per i lavoratori del comparto trasporti

Lo Studio BGP Avvocati è fortemente coinvolto nel contenzioso promosso dal personale Trenitalia.
L’avv. Andrea Bordone, che insieme all’avv. Lorenzo Franceschinis difende numerosi lavoratori in procedimenti analoghi a quelli definiti dalla Corte di Cassazione, si rende disponibile a offrire il proprio supporto a chi ritenesse, anche alla luce delle recenti sentenze di legittimità, di subire un’ingiusta decurtazione della propria retribuzione feriale.

Su questo argomento lo Studio ha elaborato un documento più articolato e dettagliato che puoi scaricare cliccando qui.

Marzia Giovannini interviene sul caso Limido

L’avv. Marzia Giovannini, partner di BGP Avvocati e Presidente di EOS Varese interviene sul caso Limido

TGR Lombardia

Marzia Giovannini interviene durante l’edizione serale del TGR Lombardia del 9 maggio 2024.

Malpensa24 TV

Marta Criscuolo, con l’avvocato Fabio Ambrosetti e l’Avv. Marzia Giovannini, presidente del Centro di ascolto Eos Varese, sono stati ospiti di Malpensa24 TV.

L’Avv. Luisa Belli sul tema “Guerre e migrazioni” al Cinema/Teatro Nuovo di Varese

Luisa Belli è intervenuta all’incontro sul tema “Guerre e migrazioni”

il 18 e 19 aprile presso il Cinema/Teatro Nuovo di Varese nell’ambito dell’assemblea di Istituto del Liceo Manzoni di Varese

Riportiamo di seguito il contributo pubblicato sul giornale La Prealpina


Anche quest’anno l’assemblea di primavera dei Licei “Manzoni” ha tenuto fede alla tradizione e nelle due mattinate di ieri e giovedì ha riunito al Nuovo, in quattro turni, tutte le studentesse e gli studenti intorno a un tema di strettissima attualità: “Guerre e migrazioni”.

Per aprire le circa due ore di informazione e riflessione, i ragazzi del “Manzoni” hanno scelto una poesia di Houda Lautrech, brillante ex alunna della sezione EsaBac, ora laureata in legge con un curriculum internazionale; che, liceale neodiciottenne, aveva scritto una lettera aperta all’allora Presidente della Camera Laura Boldrini per portare all’attenzione delle istituzioni e di tutti il tema – tuttora risolto – dello ius culturae, cioè del diritto alla cittadinanza per chi è cresciuto in Italia, frequentandone le scuole e conoscendone la cultura e la Costituzione come e spesso meglio degli italiani “per nascita”.

Il “fact-check” sul fenomeno migratorio in Itala è stato affidato al Prof. Maurizio Ambrosini dell’Università Statale di Milano e invece agli Avvocati Luisa Belli dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, e Filippo Cardaci dello Sportello Migranti delle Acli varesine, è toccato raccontare le “ragioni globali” delle migrazioni e la quotidianità dei migranti in Italia, tra diritti negati e lotte quotidiane per districarsi in una burocrazia kafkiana e costosissima.

Mentre sette attrici e attori del Laboratorio di teatro del “Manzoni” hanno dato corpo e voce al “Grande verde”, testo di Michela Prando che ne cura anche la regia, scritto dopo un anno di ricerche sulle storie dei migranti nel Mediterraneo.

Un esempio di vero teatro civile, realistico e lirico insieme, che arriva al cuore e accende il pensiero.

Fermare la violenza contro le donne: forum internazionale con l’intervento di Marzia Giovannini

Lunedì 8 Aprile dalle 10 alle 18 a Varese, Villa Toepliz, si tiene il forum internazionale contro la violenza sulle donne proposto e organizzato da Tatiana Tchouvileva, presidente e fondatrice dell’Alleanza mondiale delle donne russofone Almodor e con il sostegno della Fondazione dell’Università dell’Insubria.

Un’unica giornata ricca di interventi, sessioni e dibattiti allo scopo di promuovere azioni per contrastare la violenza sulle donne, sensibilizzare e portare un sostegno concreto alle vittime di violenza.

Convegno 5 aprile Insubria violenza donne

Durante la seconda sessione a tema «Il ruolo delle organizzazioni del terzo settore nella lotta alla violenza contro le donne» spicca la testimonianza di Marzia Giovannini, partner di BGP Avvocati e presidente di EOS centro di ascolto donna, associazione di volontariato che dal 1989 sostiene le donne vittime di violenza.

Visualizza la locandina con il programma completo dell’evento qui.

 

Programma

Interventi

La violenza di genere come problema interdisciplinare:

Natalia Krilova, Professore Ordinario di Scienze Storiche, Responsabile del gruppo di ricerca di genere, Istituto per gli Studi Africani (IAS)

 

Prima Sessione Tematica «Violenza contro le donne: origini, motivazioni, forme»

Moderatrice: Prof.ssa Cristiana Morosini

 Temi affrontati:

  • Patrizia Favaron, Cristiana Morosini, Elisabetta Zanardini – Essere donna nella scienza: desideri, problemi, qualche soluzione, speranze
  • Anna Danesi – Discriminazioni di genere e molestie nei luoghi di lavoro
  • Carla Mammone – Violenza sui Luoghi di Lavoro: l’innovativa visione della gestione sistemica integrata
  • Chiara Vannoni – Le molestie sul luogo di lavoro
  • Elena Hàkonsen – Posizione di sudditanza della vittima di violenza domestica
  • Laura Damiani – La violenza economica sulle donne
  • Francesca Salviato – Violenza ostetrica come violenza di genere

Seconda Sessione Tematica «Il ruolo delle organizzazioni del terzo settore nella lotta alla violenza contro le donne»

Moderatrice: Prof.ssa Tatiana Tchouvileva

 Temi affrontati:

  • Marzia Giovannini – avvocata, socia Studi BGP – EOS Centro Ascolto Donna
  • Paola Lanza – L’iniziativa delle donne giuriste di Varese contro la violenza di genere
  • Oxana Gouli – Formazione e motivazione dei volontari per sostenere le donne vittime di violenza
  • Inessa Shpigar – Tipologie di assistenza alle donne vittime di violenza domestica in Francia
  • Rosemaria Contu – Sostegno dei Lions alle donne
  • Anastassia Lavrikova – Integrazione di successo come strumento di prevenzione contro la violenza
  • Michela Papagno – Vola basso: le limitazioni imposte alle donne già dalla scuola
  • Debora Ferrari – Rete al Femminile: realtà nazionale e locale
  • Nataliya Shatilina – Il ruolo degli eventi di beneficenza nel sostenere le donne in situazioni di crisi

 

Dibattito Finale «Violenza Di Genere: Cose da fare e non da dire»

Moderatrice: Nicoletta Romano

 Temi affrontati:

  • Natalia Pederson – Come allontanarsi da un aggressore in famiglia
  • Svetlana Kotinat – La storia a cui nessuno credeva
  • Pausa Musicale: Con Amore per la Donna – Lev Kononov (baritono) e Elena Hàkonsen (pianoforte)
  • Incontro con l’Artista Maria Kononov – Esposizione dei dipinti
  • Arte Terapia- Masterclass con  Maria Kononov